
Ci sono cimiteri e cimiteri, quelli piccoli e raccolti dei paesini, aperti fino a tardi la sera, dove le vedove si incontrano per parlare, e quelli maestosi delle città, dove le famiglie mostrano il loro rango.
Il cimitero di Torino è entrambi, piccole aree silenziose che riproducono l’intimità del paese, lunghi colonnati e nicchie, ciascuna con la propria statua macabra a ricordare la grandiosità di una dinastia come la sua caducità, tombe monumentali che sorvegliano i percorsi tra le file di loculi e le aiuole.
Il silenzio però è ovunque e la città intorno è percepita come lontana, un’eco di vita dove invece si fa avanti la morte. Qui il suo mistero ci attrae e poco alla volta, seduti su una panchina, diventa più familiare dei rumori sullo sfondo.
Lasciando i viali principali e le lunghe vie che sembrano voler riprodurre le vie cittadine, si entra in un altro mondo, dove occhieggiano puttini sbiaditi, volti affranti di madri e di mogli, coppie di sposi antichi dallo sguardo severo, vedove che piangono il loro dolore sdraiate ad accarezzare le lapidi.
La donna distesa che sembra dormire o la Morte in persona con il suo ovvio mantello nero sono i padroni di questo spazio che noi vivi per poco stiamo attraversando, di nuovo vicini per un attimo struggente a chi ci ha lasciato. Una breve anteprima dell’incontro che avverrà quando anche noi raggiungeremo del tutto quella sponda.
I nostri ospiti silenziosi ci aspettano pazientemente.
Questo è il significato di queste foto, scattate in mattine diverse al Cimitero Generale di Torino.
Un omaggio al mistero della Morte, un gesto d’affetto verso i nostri cari che immaginiamo vicini a noi e che lì si rappresentano perché non scompaia il ricordo.
Testo S. Maruffi - S. Vada
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